Marino Palleschi
1916-17: una lunga stagione romana
I consensi erano stati unanimi; i complimenti per la sua ultima fatica erano arrivati anche da chi in passato mai si era mostrato così entusiasta. Tutto il pubblico romano lo aveva accolto con gli stessi sorrisi e la stessa simpatia appena riservata ai personaggi della sua commedia tutta italiana. Sembrava proprio un grande momento e, per assaporarlo meglio, il giovanotto iniziò a ripercorrere mentalmente le tappe della sua rapida carriera.
Cominciò a ripensare agli inizi, al momento in cui l’amico l'aveva tolto dall'anonimato, lui, proprio lui, un oscuro ragazzetto dal seduttivo sguardo bizantino, per trasformarlo, a suon di intelligenza e buon gusto, in un genio della coreografia. Quando gli aveva fatto acquistare a un’importante asta parigina un’intera collezione di testi antichi di danza, i suoi progressi, già in crescita, avevano subito un’impennata – ne era consapevole – favorita dallo studio di quei vecchi maestri.
Si era tuffato immediatamente nella lettura, in quel tardo autunno del 1916, avendo a disposizione tutto il tempo libero necessario agli studi. Era in vacanza, in una lunga vacanza autunnale, decisa, per entrambi, dall'amico. Dopo aver girovagato in lungo e in largo per l'Italia assieme ai coniugi Sert, si erano stabiliti a Roma con i Cecchetti, che assicuravano la solita lezione quotidiana del ragazzo. Diaghilev si poteva ben concedere la gita lunga lunga: l’anno precedente aveva preso accordi per restarsene tranquillo in Europa assieme a Massine, e a un piccolo nucleo di fedelissimi collaboratori, mentre i Ballets Russes si esibivano nella loro seconda tournée americana. Gli era parso il modo migliore per evitare il temibile mare e, nel contempo, per pensare in tutta tranquillità ai nuovi balletti per la compagnia prima del suo rientro.
A Roma il giovane aveva preso l’abitudine di frequentare il Café Ariana per rievocare i vecchi tempi assieme a un critico musicale pietroburghese, che da sempre professava un indomito entusiasmo per le imprese del suo vecchio amico Diaghilev. Sgombrata la mente con la chiacchierata quotidiana, il giovanotto tornava a rifugiarsi nella tranquillità della sua camera in via del Corso per riaprire i trattati appena acquistati in preziosissime prime edizioni. Che lotte aveva intrapreso con l’intricato sistema di notazione usato per fissare le danze seicentesche! In un primo tempo gli era parso impossibile penetrarne il significato. Ma uno studio ancor più intenso gli aveva mostrato con chiarezza che alcuni schemi coreutici si ripetevano negli scritti di quei maestri, per riaffiorare anche a distanza di secoli. Qualcuno spuntava perfino nei trattati ottocenteschi di Blasis, dal cui insegnamento discendeva, in linea diretta, proprio quello del suo maestro.
Cominciò a ripensare agli inizi, al momento in cui l’amico l'aveva tolto dall'anonimato, lui, proprio lui, un oscuro ragazzetto dal seduttivo sguardo bizantino, per trasformarlo, a suon di intelligenza e buon gusto, in un genio della coreografia. Quando gli aveva fatto acquistare a un’importante asta parigina un’intera collezione di testi antichi di danza, i suoi progressi, già in crescita, avevano subito un’impennata – ne era consapevole – favorita dallo studio di quei vecchi maestri.
Si era tuffato immediatamente nella lettura, in quel tardo autunno del 1916, avendo a disposizione tutto il tempo libero necessario agli studi. Era in vacanza, in una lunga vacanza autunnale, decisa, per entrambi, dall'amico. Dopo aver girovagato in lungo e in largo per l'Italia assieme ai coniugi Sert, si erano stabiliti a Roma con i Cecchetti, che assicuravano la solita lezione quotidiana del ragazzo. Diaghilev si poteva ben concedere la gita lunga lunga: l’anno precedente aveva preso accordi per restarsene tranquillo in Europa assieme a Massine, e a un piccolo nucleo di fedelissimi collaboratori, mentre i Ballets Russes si esibivano nella loro seconda tournée americana. Gli era parso il modo migliore per evitare il temibile mare e, nel contempo, per pensare in tutta tranquillità ai nuovi balletti per la compagnia prima del suo rientro.
A Roma il giovane aveva preso l’abitudine di frequentare il Café Ariana per rievocare i vecchi tempi assieme a un critico musicale pietroburghese, che da sempre professava un indomito entusiasmo per le imprese del suo vecchio amico Diaghilev. Sgombrata la mente con la chiacchierata quotidiana, il giovanotto tornava a rifugiarsi nella tranquillità della sua camera in via del Corso per riaprire i trattati appena acquistati in preziosissime prime edizioni. Che lotte aveva intrapreso con l’intricato sistema di notazione usato per fissare le danze seicentesche! In un primo tempo gli era parso impossibile penetrarne il significato. Ma uno studio ancor più intenso gli aveva mostrato con chiarezza che alcuni schemi coreutici si ripetevano negli scritti di quei maestri, per riaffiorare anche a distanza di secoli. Qualcuno spuntava perfino nei trattati ottocenteschi di Blasis, dal cui insegnamento discendeva, in linea diretta, proprio quello del suo maestro.
Con questa chiave di lettura, gradualmente si era reso conto che le danze di corte contenevano già i germi della danza accademica e in esse aveva individuato i principi di base sui quali era costruito l’intero metodo appreso dal maestro. Ora era chiaro: anche le teorie riformistiche del collega Fokine, ancorché rivoluzionarie rispetto a certa tradizione dei Teatri Imperiali, affondavano le loro radici nelle idee fissate tre secoli prima. Dal primo piccolo spiraglio si era aperta una via diretta col passato dal quale attingere idee antiche per una nuova coreutica, e, una volta aperto il varco, quanto intenso era stato il desiderio di rimettersi al lavoro subito subito per poter attingere a quei fascinosi modelli del passato, riproponendoli filtrati dalla sua esperienza e dal suo sentire attualissimo!
Ed ecco che Diaghilev gli aveva proposto di creare un balletto su un’amata commedia di Goldoni. Sì, il balletto tutto italiano era stato proprio il giusto banco di prova per praticare gli insegnamenti antichi. Gli era parso interessante il contrasto di stili che aveva creato partendo dalle danze settecentesche. Mentre per la parte inferiore del corpo aveva mantenuto l’usuale movimento armonioso della danza accademica, per la parte superiore aveva inventato un linguaggio di movimenti spezzati ed angolari. E l’opposizione di stili era piaciuta anche al pubblico del Costanzi, che aveva decretato il successo delle sue Donne di buon umore. Massine aveva trovato il suo genere espressivo: la commedia sapida e gustosa, dal complicato intreccio popolare, ricco di inganni astuti, travestimenti buffi, corteggiamenti frivoli, arguzie piccanti, stemperate da lunghi momenti lirici, ai quali facevano da contrappunto passaggi tratti dal folklore. Aveva trovato la via di portare il passato al pubblico, ma il lavoro era stato immane.
Diaghilev gli aveva fatto ascoltare oltre cinquecento sonate per clavicembalo di Scarlatti, le aveva discusse con lui una per una, per individuare quelle che più assecondassero, col loro ritmo veloce, una coreografia imperniata sulla pantomima, danzata con la rapida precisione con cui si evolve una pochade. Insieme ne avevano scelte una ventina da passare al giovane compositore romano Vincenzo Tomassini per l’orchestrazione. Prezioso era stato anche il suggerimento dell’impresario di studiare la pittura dei vedutisti veneti, in special modo Francesco Guardi. Dalle macchiette dei pittori dell’epoca Massine aveva rubato quella gestualità spezzata che avrebbe innestato, per contrasto, sul movimento accademico. Per la scena principale, la cena offerta da Mariuccia ai suoi ammiratori, in assenza della padrona, il giovane aveva attinto allo spiccatissimo senso del dettaglio domestico presente in Pietro Longhi. Ma era stato nelle Fêtes Galantes di Watteau che aveva colto il languore dei gesti femminili e il triste, malinconico abbandono degli sguardi, con cui aveva caratterizzato la ragazza abbandonata dall’amante. Era rimasto il problema di differenziare dagli altri personaggi il goffo e sciocco servitore Niccolò. L’idea per il contrasto stilistico questa volta era venuta ripensando agli spettacoli di burattini visti anni prima a Viareggio: proprio con una gestualità da marionetta aveva costruito una mimica che rendesse un personaggio in bilico tra un asettico Zanni della Commedia dell’Arte e un personaggio credibile, come avrebbe voluto la riforma goldoniana del teatro italiano.
Ed ecco che Diaghilev gli aveva proposto di creare un balletto su un’amata commedia di Goldoni. Sì, il balletto tutto italiano era stato proprio il giusto banco di prova per praticare gli insegnamenti antichi. Gli era parso interessante il contrasto di stili che aveva creato partendo dalle danze settecentesche. Mentre per la parte inferiore del corpo aveva mantenuto l’usuale movimento armonioso della danza accademica, per la parte superiore aveva inventato un linguaggio di movimenti spezzati ed angolari. E l’opposizione di stili era piaciuta anche al pubblico del Costanzi, che aveva decretato il successo delle sue Donne di buon umore. Massine aveva trovato il suo genere espressivo: la commedia sapida e gustosa, dal complicato intreccio popolare, ricco di inganni astuti, travestimenti buffi, corteggiamenti frivoli, arguzie piccanti, stemperate da lunghi momenti lirici, ai quali facevano da contrappunto passaggi tratti dal folklore. Aveva trovato la via di portare il passato al pubblico, ma il lavoro era stato immane.
Diaghilev gli aveva fatto ascoltare oltre cinquecento sonate per clavicembalo di Scarlatti, le aveva discusse con lui una per una, per individuare quelle che più assecondassero, col loro ritmo veloce, una coreografia imperniata sulla pantomima, danzata con la rapida precisione con cui si evolve una pochade. Insieme ne avevano scelte una ventina da passare al giovane compositore romano Vincenzo Tomassini per l’orchestrazione. Prezioso era stato anche il suggerimento dell’impresario di studiare la pittura dei vedutisti veneti, in special modo Francesco Guardi. Dalle macchiette dei pittori dell’epoca Massine aveva rubato quella gestualità spezzata che avrebbe innestato, per contrasto, sul movimento accademico. Per la scena principale, la cena offerta da Mariuccia ai suoi ammiratori, in assenza della padrona, il giovane aveva attinto allo spiccatissimo senso del dettaglio domestico presente in Pietro Longhi. Ma era stato nelle Fêtes Galantes di Watteau che aveva colto il languore dei gesti femminili e il triste, malinconico abbandono degli sguardi, con cui aveva caratterizzato la ragazza abbandonata dall’amante. Era rimasto il problema di differenziare dagli altri personaggi il goffo e sciocco servitore Niccolò. L’idea per il contrasto stilistico questa volta era venuta ripensando agli spettacoli di burattini visti anni prima a Viareggio: proprio con una gestualità da marionetta aveva costruito una mimica che rendesse un personaggio in bilico tra un asettico Zanni della Commedia dell’Arte e un personaggio credibile, come avrebbe voluto la riforma goldoniana del teatro italiano.
Nel frattempo, per le sue serate romane, Diaghilev aveva ripreso una vecchia abitudine portandola ai vertici della raffinatezza: in passato, ad esempio per Shéhérazade, durante l'esecuzione di una ouvertoure o di pezzi di sola musica aveva voluto che il pubblico godesse almeno di un sipario, che fosse un pezzo d'arte, commissionato a un pittore di valore e di soggetto aderente allo spettacolo. Diaghilev a Roma era andato oltre allorché aveva presentato una breve composizione di Stravinsky, Feu d'Artifice, facendola accompagnare da una installazione futurista.
Le frequentazioni del loro autunno romano gli avevano fatto conoscere i dipinti che catturavano la velocità delle automobili, le costruzioni astratte in materiali frutto della più recente ricerca tecnologica, il manifesto La Ricostruzione Futurista di Balla e Depero. Per esaltare la musica di Feu d'Artifice aveva chiesto a Balla di impaginare solidi dai rossi scarlatti e dai verdi violenti; le forme, in parte con decorazioni frastagliate, erano state illuminate separatamente dall'esterno o dall'interno, secondo un'alternanza e uno schema dettato dalla musica e studiato da Balla e da Diaghilev.
Le frequentazioni del loro autunno romano gli avevano fatto conoscere i dipinti che catturavano la velocità delle automobili, le costruzioni astratte in materiali frutto della più recente ricerca tecnologica, il manifesto La Ricostruzione Futurista di Balla e Depero. Per esaltare la musica di Feu d'Artifice aveva chiesto a Balla di impaginare solidi dai rossi scarlatti e dai verdi violenti; le forme, in parte con decorazioni frastagliate, erano state illuminate separatamente dall'esterno o dall'interno, secondo un'alternanza e uno schema dettato dalla musica e studiato da Balla e da Diaghilev.
In dicembre Bakst aveva raggiunto Diaghilev e Massine da Parigi, per realizzare scene e costumi del balletto italiano. Aveva proposto costumi settecenteschi apprezzatissimi per i loro colori vividi, con angoli e volumi molto importanti, nel tentativo di mostrare che non era tagliato fuori dalle tendenze cubiste. In effetti si erano rivelati adatti ad assecondare i movimenti da marionetta concepiti da Massine per i personaggi.
Per la scena aveva pensato a una piazza veneta riprodotta come se fosse riflessa in uno specchio convesso, con i contorni verticali degli edifici incurvati all'interno. Scriverà lo stesso Bakst che il suo décor suggeriva Goldoni e l'Italia visti con gli occhi di Hogarth; la distorsione sarebbe dovuta essere il tentativo di imitare il dinamismo futurista, ma Diaghilev lo bollò come grave errore, poiché la statica architettura nulla ha a che fare con la velocità e intervenì pesantemente durante la realizzazione nella scelta dei dettagli e con cambiamenti tutt'altro che marginali. Questa fu considerata la sola nota stonata della produzione, che aveva riscosso un successo straordinario anche per la novità del genere: dopo Carnaval e Jeux, era sostanzialmente la prima importante proposta dei Ballets Russes senza agganci al mondo russo e priva di elementi orientalisti od esotici.
Il gioco dei contrasti, concepito da Massine per Les Femmes de Bonne Humeur sarebbe diventato una cifra dei suoi lavori: nel riprendere Kikimora per incorporarlo in un balletto imperniato su leggende russe, aveva curato un costante equilibrio tra i movimenti felini del gatto e la furia scomposta della strega.
Per la scena aveva pensato a una piazza veneta riprodotta come se fosse riflessa in uno specchio convesso, con i contorni verticali degli edifici incurvati all'interno. Scriverà lo stesso Bakst che il suo décor suggeriva Goldoni e l'Italia visti con gli occhi di Hogarth; la distorsione sarebbe dovuta essere il tentativo di imitare il dinamismo futurista, ma Diaghilev lo bollò come grave errore, poiché la statica architettura nulla ha a che fare con la velocità e intervenì pesantemente durante la realizzazione nella scelta dei dettagli e con cambiamenti tutt'altro che marginali. Questa fu considerata la sola nota stonata della produzione, che aveva riscosso un successo straordinario anche per la novità del genere: dopo Carnaval e Jeux, era sostanzialmente la prima importante proposta dei Ballets Russes senza agganci al mondo russo e priva di elementi orientalisti od esotici.
Il gioco dei contrasti, concepito da Massine per Les Femmes de Bonne Humeur sarebbe diventato una cifra dei suoi lavori: nel riprendere Kikimora per incorporarlo in un balletto imperniato su leggende russe, aveva curato un costante equilibrio tra i movimenti felini del gatto e la furia scomposta della strega.
Terminato anche questo lavoro, aveva potuto godere delle chiacchierate di quel circolo di artisti che gravitava attorno al loro studio di Piazza Venezia. Erano stati raggiunti a Roma da Picasso e da Cocteau, dietro invito dello stesso Diaghilev che, nel gennaio del 1917 si era recato di persona a Parigi per sollecitare un loro soggiorno a Roma. L’idea era di lavorare intensamente nella capitale al suo balletto cubista, Parade, che doveva essere pronto per la stagione parigina della primavera successiva. Durante le chiacchierate romane Massine aveva assorbito con avidità ogni parola dei compagni da poco venuti: i consigli di Picasso e quelli, oltraggiosi ed irritanti, di Cocteau, che, però, portavano una ventata d’avanguardia in compagnia. Quasi senza accorgersene era iniziato il lavoro in comune per Parade, poi ecco le numerosissime visite ad Ercolano e a Pompei, alternate a lunghe passeggiate pomeridiane tra i vicoletti della città partenopea per assorbire lo spirito pittoresco dei venditori di strada e dei piccoli artigiani improvvisati, che avrebbe riversato nelle creazioni a venire.
Nelle ore di lavoro Massine, Cocteau e Picasso si concentravano sul balletto cubista, che metteva in scena quell'abbozzo di spettacolo - La Parata, appunto - accennato, per le strade, dagli artisti circensi per attirare il pubblico alla loro rappresentazione successiva. Fu Picasso a suggerire che, al Prestigiatore Cinese, ai due Acrobati e alla precoce Ragazza Americana, fossero aggiunti altri due personaggi: i Manager, in costumi-scultura cubisti, che incorporavano gli elementi rappresentativi di diverse civiltà. Per il sipario di Picasso pensarono a un'immagine naif, relativamente convenzionale, che enfatizzasse, per contrasto, la sorpresa delle novità cubiste della scena che celava. Quest'ultima rappresentava una strada della periferia parigina, ma i caseggiati squadrati e anonimi, carichi di finestroni, il baraccone degli artisti di strada e le due balaustre che lo affiancavano erano visti secondo differenti e improbabili prospettive, ciascuno da un suo punto di fuga. L'intera scena era trattata coi colori tipici del cubismo: gli ocra e i grigi consueti. Le novità erano completate da rumori reali che affogavano la musica di Satie e dai movimenti stilizzati pensati da Massine che simulavano azioni quotidiane.
Nelle ore di lavoro Massine, Cocteau e Picasso si concentravano sul balletto cubista, che metteva in scena quell'abbozzo di spettacolo - La Parata, appunto - accennato, per le strade, dagli artisti circensi per attirare il pubblico alla loro rappresentazione successiva. Fu Picasso a suggerire che, al Prestigiatore Cinese, ai due Acrobati e alla precoce Ragazza Americana, fossero aggiunti altri due personaggi: i Manager, in costumi-scultura cubisti, che incorporavano gli elementi rappresentativi di diverse civiltà. Per il sipario di Picasso pensarono a un'immagine naif, relativamente convenzionale, che enfatizzasse, per contrasto, la sorpresa delle novità cubiste della scena che celava. Quest'ultima rappresentava una strada della periferia parigina, ma i caseggiati squadrati e anonimi, carichi di finestroni, il baraccone degli artisti di strada e le due balaustre che lo affiancavano erano visti secondo differenti e improbabili prospettive, ciascuno da un suo punto di fuga. L'intera scena era trattata coi colori tipici del cubismo: gli ocra e i grigi consueti. Le novità erano completate da rumori reali che affogavano la musica di Satie e dai movimenti stilizzati pensati da Massine che simulavano azioni quotidiane.
Gabrielle Chanel, di origine contadina, già cantante ed entraineuse, intenzionata a farsi un nome a Parigi nel campo della moda, finanziava l'operazione. Sua sarebbe stata l'idea del tessuto blu violaceo sul quale Picasso avrebbe dipinto le colonne tortili della scena, sua sarebbe stata l'idea di sistemare in una nicchia della scena maschere di carnevale dipinte di bianco, come bianco sarebbe stato il maquillage da lei concepito. Apollinaire ebbe il compito di redigere il programma di sala e, in quell'occasione, avrebbe coniato il neologismo "surrealismo". Dettagli su questo periodo di lavoro si trovano nell' articolo: Picasso, la danza e otto settimane in Italia.
Parade era pronto, la primavera era alle soglie, la compagnia era di ritorno dalla tournée americana. Il soggiorno romano aveva fatto trovare a Massine la sua vena creativa, aveva avvicinato Diaghilev al futurismo e alle avanguardie. Complice il fascino della capitale, Diaghilev si era convinto a rivolgersi, per la prima volta a un pittore straniero, a uno dei capiscuola di del cubismo, e ad accogliere per la prima volta idee surrealiste.
La Compagnia, riunitasi al gruppo romano, dopo tre anni di attività in sordina, nel maggio del 1917 era pronta a ritornare finalmente a Parigi e a dimostrare al mondo, con Parade, che i Ballets Russes erano capaci di svolte radicali con produzioni allineate alle idee moderniste che si affermavano in Occidente.