Marino Palleschi
La Primavera delle Sagre
Questa rassegna di coreografie del Sacre mutua il titolo da un filmato di Jacques Malaterre, Les Printemps du Sacre, che allude alla fioritura di versioni coreografiche ispirate alla musica di Stravinsky.
E’ ben nota l’accoglienza fortemente contrastata riservata dal pubblico parigino a Le Sacre du printemps proposto dai Ballets Russes nel 1913. Apparvero destabilizzanti sia la violenza della partitura di Stravinsky che il lessico espressivo concepito da Nijinsky per analizzare con spietata durezza un antichissimo rituale, propiziatorio al ritorno della primavera, consumato da una tribù di slavi e culminante col sacrificio di una fanciulla. Allo scopo, il polacco aveva messo a punto un linguaggio, al di fuori della danza accademica, che la danza moderna avrebbe fatto suo soltanto qualche decennio più tardi.
L’esigenza primaria di perpetuare la specie, la subordinazione dell’individuo alla collettività, la religiosità arcaica commista alla superstizione hanno lasciato sul balletto una tale patina di universalità da stimolare molti importanti coreografi a darne la loro interpretazione: da Leonid Massine ad Aurelio Millos, da Martha Graham a Mary Wigman, da Mats Ek ad Angelin Preljocaj, da John Neumeier a Paul Taylor, da Maurice Béjart a Heinz Spoerli, da Kenneth MacMillan, a James Kudelka, a Pina Bausch.
Per le forti perplessità destate il Sacre di Nijinsky uscì subito dal repertorio dei Ballets Russes e soltanto nel 1920 Diaghilev decise di riprenderlo, confortato dal successivo apprezzamento della musica di Stravinsky e trattenuto dall’impegnarsi in nuove produzioni per le consuete ristrettezze economiche. I pochissimi interpreti della versione di Nijinsky ancora in compagnia ricordavano solo tracce labili della coreografia originale. Così ne fu commissionata una nuova a Massine, che ne fece un successo da subito.
E’ ben nota l’accoglienza fortemente contrastata riservata dal pubblico parigino a Le Sacre du printemps proposto dai Ballets Russes nel 1913. Apparvero destabilizzanti sia la violenza della partitura di Stravinsky che il lessico espressivo concepito da Nijinsky per analizzare con spietata durezza un antichissimo rituale, propiziatorio al ritorno della primavera, consumato da una tribù di slavi e culminante col sacrificio di una fanciulla. Allo scopo, il polacco aveva messo a punto un linguaggio, al di fuori della danza accademica, che la danza moderna avrebbe fatto suo soltanto qualche decennio più tardi.
L’esigenza primaria di perpetuare la specie, la subordinazione dell’individuo alla collettività, la religiosità arcaica commista alla superstizione hanno lasciato sul balletto una tale patina di universalità da stimolare molti importanti coreografi a darne la loro interpretazione: da Leonid Massine ad Aurelio Millos, da Martha Graham a Mary Wigman, da Mats Ek ad Angelin Preljocaj, da John Neumeier a Paul Taylor, da Maurice Béjart a Heinz Spoerli, da Kenneth MacMillan, a James Kudelka, a Pina Bausch.
Per le forti perplessità destate il Sacre di Nijinsky uscì subito dal repertorio dei Ballets Russes e soltanto nel 1920 Diaghilev decise di riprenderlo, confortato dal successivo apprezzamento della musica di Stravinsky e trattenuto dall’impegnarsi in nuove produzioni per le consuete ristrettezze economiche. I pochissimi interpreti della versione di Nijinsky ancora in compagnia ricordavano solo tracce labili della coreografia originale. Così ne fu commissionata una nuova a Massine, che ne fece un successo da subito.
Il nuovo coreografo dei Ballets Russes, in linea col pensiero di Stravinsky, diede del balletto un’interpretazione più stilizzata, rinunciando alla successione di episodi drammaturgici –il gioco del rapimento, le ronde primaverili, il gioco delle città rivali- a favore di una “coreografia costruita liberamente sulla musica”.
Lo stesso programma di sala descriveva coreografia e musica come due simbiotiche “costruzioni architettoniche”. Stravinsky volle esprimere il suo entusiasmo per il lavoro di Massine, che aveva, secondo lui, compreso lo spirito astratto della musica eliminando ogni cenno descrittivo; tuttavia, nel dichiarare la sua adesione alla nuova interpretazione della sua musica, si mostrò così ingrato da denigrare l’originario lavoro, sul quale, invece, si era espresso positivamente prima del debutto del 1913.
Che il lavoro di Massine fosse fortemente orientato verso l’astrattismo è sostanzialmente confermato da Lidija Sokolova, la ballerina scelta da Massine come Eletta, che era stata anche nel cast originale. Nella sua autobiografia l’artista testimonia la precisione matematica di questa coreografia, la sua concezione intellettuale, ragionata e riportata nell’ambito di un rigore formale che Nijinsky aveva rifiutato. A titolo d’esempio, il rivoluzionario en dedans dei piedi voluto dal polacco lasciò il posto a una posizione in sesta.
In realtà, la coreografia di Massine, pur aprendo la strada a una versione di movimento puro, dipingeva ancora un quadro, sia pur generico, della Russia pagana e la gestualità, sebbene essenziale, rimandava comunque al lavoro domestico o a quello nei campi.
Sarà Millos nel 1941 a realizzare per il Teatro dell’Opera di Roma una perfetta adesione della coreografia alle indicazioni che Stravinsky ci ha lasciato nelle sue Cronache: l’aspetto scenico, nel riflettere la pura architettura formale che sostiene la partitura, deve ridursi a “una serie di movimenti ritmici di estrema semplicità, eseguiti da compatti blocchi umani,…., senza minuzie superflue…”.
Questa produzione fu la prima nazionale del Sacre con Attilia Radice come prima Eletta italiana, seguita nel 1948 dalla presentazione alla Scala di Milano della versione Massine con Luciana Novaro come Eletta.
Mentre nel Sacre di Nijinsky i due sessi erano sempre separati, in quello di Massine si stabilivano contatti fisici tra loro. Secondo l’interpretazione di Hodson e Archer, i coreo-archeologi che hanno ricostruito la versione di Nijinsky, le relazioni tra i due sessi, nel portare in palcoscenico una vita tribale più evoluta, contengono i germi di tutte le versioni del Sacre basate sul desiderio sessuale come pulsione necessaria al perpetuarsi della specie.
Lo stesso programma di sala descriveva coreografia e musica come due simbiotiche “costruzioni architettoniche”. Stravinsky volle esprimere il suo entusiasmo per il lavoro di Massine, che aveva, secondo lui, compreso lo spirito astratto della musica eliminando ogni cenno descrittivo; tuttavia, nel dichiarare la sua adesione alla nuova interpretazione della sua musica, si mostrò così ingrato da denigrare l’originario lavoro, sul quale, invece, si era espresso positivamente prima del debutto del 1913.
Che il lavoro di Massine fosse fortemente orientato verso l’astrattismo è sostanzialmente confermato da Lidija Sokolova, la ballerina scelta da Massine come Eletta, che era stata anche nel cast originale. Nella sua autobiografia l’artista testimonia la precisione matematica di questa coreografia, la sua concezione intellettuale, ragionata e riportata nell’ambito di un rigore formale che Nijinsky aveva rifiutato. A titolo d’esempio, il rivoluzionario en dedans dei piedi voluto dal polacco lasciò il posto a una posizione in sesta.
In realtà, la coreografia di Massine, pur aprendo la strada a una versione di movimento puro, dipingeva ancora un quadro, sia pur generico, della Russia pagana e la gestualità, sebbene essenziale, rimandava comunque al lavoro domestico o a quello nei campi.
Sarà Millos nel 1941 a realizzare per il Teatro dell’Opera di Roma una perfetta adesione della coreografia alle indicazioni che Stravinsky ci ha lasciato nelle sue Cronache: l’aspetto scenico, nel riflettere la pura architettura formale che sostiene la partitura, deve ridursi a “una serie di movimenti ritmici di estrema semplicità, eseguiti da compatti blocchi umani,…., senza minuzie superflue…”.
Questa produzione fu la prima nazionale del Sacre con Attilia Radice come prima Eletta italiana, seguita nel 1948 dalla presentazione alla Scala di Milano della versione Massine con Luciana Novaro come Eletta.
Mentre nel Sacre di Nijinsky i due sessi erano sempre separati, in quello di Massine si stabilivano contatti fisici tra loro. Secondo l’interpretazione di Hodson e Archer, i coreo-archeologi che hanno ricostruito la versione di Nijinsky, le relazioni tra i due sessi, nel portare in palcoscenico una vita tribale più evoluta, contengono i germi di tutte le versioni del Sacre basate sul desiderio sessuale come pulsione necessaria al perpetuarsi della specie.
Tra questi si colloca il Sacre di Béjart, strepitoso successo del 1959 del neonato Ballet du XX Siècle. Il coreografo marsigliese cancella completamente i rimandi alla Russia pagana, ricreando un clima universale, presenta la danza come il solo rituale che superi ogni nazionalismo e che sia collettivo e, infine, rifiuta il clima di morte identificando il momento culminante del rito, il sacrificio, all’incontro fisico e spirituale di due esseri umani, a un atto d’amore, strumento per esaltare il mistero della vita e per perpetuarlo.
La costruzione di Béjart parte da un gesto fondamentale: la posizione in cui una mano copre un occhio e la corrispondente metà del volto. Il medesimo gesto appartiene sia all’uomo che alla donna, ma, passando da un sesso all’altro, cambiano la mano e la metà del volto implicate. Così uomo e donna appaiono, grazie a una scelta gestuale elementare, come due metà della medesima entità.
Anche l’impaginazione del balletto asseconda il tema del dualismo con l’espediente più semplice che si possa concepire: in una prima parte sono in scena gli uomini, in una seconda le donne. Il dualismo è presentato come causa di contrasti, conflitti ed angosce, risolubili soltanto acquisendo l’unità, la quale è rappresentata mediante l’unione della coppia, vista come fusione di due elementi simultaneamente antagonisti e complementari.
Il superamento del dualismo come rito propiziatorio all’armonia è concetto sotteso da molte religioni, ci spiega lo stesso Béjart, incluse quelle primitive a partire dallo sciamanismo, a cui fece riferimento Nijinsky, e inclusa la teoria dello yin e yang, i due opposti principi in cui si divide il Tao, che regge l’universo. Come ha chiarito lo stesso coreografo, l’accoppiamento è simbolo esplicito dell’equilibrio raggiunto con l’unità.
Sebbene il Sacre di Béjart appaia, nell’affrontare un tema astratto e universale, assai diverso da quello di Nijinsky, in realtà le due versioni hanno un importante punto di contatto: la soluzione al problema della salvezza e dell’armonia della specie va ricercata nelle religioni più primitive, libere da sovrastrutture, e nella ritualità, dalla quale la danza nasce in modo spontaneo.
In questi termini, la disposizione dei ballerini lungo circonferenze, più che citare in modo esplicito figurazioni del Sacre del 1913, dichiara l’adesione di Bèjart alla scelta di Nijinsky di rifarsi alla ritualità dettata dal sentire primordiale.
In conclusione il Sacre del marsigliese, e almeno in nuce quello di Nijinsky, affrontano con grande anticipo l’attualissimo problema della globalizzazione, cogliendone gli aspetti positivi e proponendo costruttivavamente un modo per vivere, anziché limitarsi a combattere, “… un’epoca in cui le frontiere contingenti dello spirito umano cadono a poco a poco, e …si può cominciare a parlare di una cultura mondiale”. La ricetta è semplice: va rifiutato “tutto il folklore che non sia universale” e, con un ritorno alle origini, vanno individuate e conservate “soltanto le forze essenziali dell’uomo; che sono le stesse in tutti i continenti, sotto tutte le latitudini e in tutte le epoche. (Béjart)”.
La costruzione di Béjart parte da un gesto fondamentale: la posizione in cui una mano copre un occhio e la corrispondente metà del volto. Il medesimo gesto appartiene sia all’uomo che alla donna, ma, passando da un sesso all’altro, cambiano la mano e la metà del volto implicate. Così uomo e donna appaiono, grazie a una scelta gestuale elementare, come due metà della medesima entità.
Anche l’impaginazione del balletto asseconda il tema del dualismo con l’espediente più semplice che si possa concepire: in una prima parte sono in scena gli uomini, in una seconda le donne. Il dualismo è presentato come causa di contrasti, conflitti ed angosce, risolubili soltanto acquisendo l’unità, la quale è rappresentata mediante l’unione della coppia, vista come fusione di due elementi simultaneamente antagonisti e complementari.
Il superamento del dualismo come rito propiziatorio all’armonia è concetto sotteso da molte religioni, ci spiega lo stesso Béjart, incluse quelle primitive a partire dallo sciamanismo, a cui fece riferimento Nijinsky, e inclusa la teoria dello yin e yang, i due opposti principi in cui si divide il Tao, che regge l’universo. Come ha chiarito lo stesso coreografo, l’accoppiamento è simbolo esplicito dell’equilibrio raggiunto con l’unità.
Sebbene il Sacre di Béjart appaia, nell’affrontare un tema astratto e universale, assai diverso da quello di Nijinsky, in realtà le due versioni hanno un importante punto di contatto: la soluzione al problema della salvezza e dell’armonia della specie va ricercata nelle religioni più primitive, libere da sovrastrutture, e nella ritualità, dalla quale la danza nasce in modo spontaneo.
In questi termini, la disposizione dei ballerini lungo circonferenze, più che citare in modo esplicito figurazioni del Sacre del 1913, dichiara l’adesione di Bèjart alla scelta di Nijinsky di rifarsi alla ritualità dettata dal sentire primordiale.
In conclusione il Sacre del marsigliese, e almeno in nuce quello di Nijinsky, affrontano con grande anticipo l’attualissimo problema della globalizzazione, cogliendone gli aspetti positivi e proponendo costruttivavamente un modo per vivere, anziché limitarsi a combattere, “… un’epoca in cui le frontiere contingenti dello spirito umano cadono a poco a poco, e …si può cominciare a parlare di una cultura mondiale”. La ricetta è semplice: va rifiutato “tutto il folklore che non sia universale” e, con un ritorno alle origini, vanno individuate e conservate “soltanto le forze essenziali dell’uomo; che sono le stesse in tutti i continenti, sotto tutte le latitudini e in tutte le epoche. (Béjart)”.
La versione di Béjart fu la prima interpretazione che Mats Ek vide della musica di Stravinsky. Ne ricavò un’impressione così travolgente che si ripromise di dare del Sacre du printemps una sua versione, ma di rimandare l’impegno finché non avesse trovato una sua personale chiave di lettura.
Questa gli apparve nel 1984 allorché accostò la musica di Stravinsky ai film di Kurosawa. Ecco in scena samurai in blu e gheishe in rosso impegnati in un rituale che ha ancora una vittima, necessaria a garantire un futuro. E questo rituale non è che un matrimonio giapponese, combinato dai genitori della sposa. Padre e madre decidono di dare la figlia in matrimonio a un uomo che, al primo incontro con la giovane, rimane intimorito e profondamente turbato, tanto quanto la fanciulla. La protagonista non è, come in Sacre precedenti, vittima remissiva, ma si oppone al suo destino scegliendone uno forse peggiore con l’uccisione dei genitori.
Questa gli apparve nel 1984 allorché accostò la musica di Stravinsky ai film di Kurosawa. Ecco in scena samurai in blu e gheishe in rosso impegnati in un rituale che ha ancora una vittima, necessaria a garantire un futuro. E questo rituale non è che un matrimonio giapponese, combinato dai genitori della sposa. Padre e madre decidono di dare la figlia in matrimonio a un uomo che, al primo incontro con la giovane, rimane intimorito e profondamente turbato, tanto quanto la fanciulla. La protagonista non è, come in Sacre precedenti, vittima remissiva, ma si oppone al suo destino scegliendone uno forse peggiore con l’uccisione dei genitori.
La medesima posizione ribelle hanno le possibili vittime sacrificali di Pina Bausch, protagoniste di un’azione drammatica che sembra essere in atto da sempre allorché, entrando in sala, il pubblico vede, a sipario aperto, alcuni ballerini già in azione.
La coreografia del 1975, ripresa con successo dall’Opéra nel 98, è una minuziosa composizione geometrica che imprigiona gruppi di vergini terrorizzate, impegnate, fuggendo da ogni parte, nel tentativo di evitare il rito immutabile dell’accoppiamento consumato per marcare il ritorno della primavera. La coreografia è fortemente allusiva alla condizione di vittima in cui è relegata la donna nella società.
In lunghe camicie chiare le fanciulle si lanciano l’un l’altra con orrore l’abito rosso che designerà l’Eletta, di fronte ai maschi a torace nudo, in pantaloni neri, impassibili nell’attesa che l’ineluttabile si compia. Si raggruppano per darsi conforto, si separano lanciandosi in scorribande piene di terrore, finché l’implacabile sciamano non imporrà l’abito rosso a una di esse, che, sull’accordo finale, cade inebetita rigidamente sul terreno come un albero abbattuto.
La coreografia del 1975, ripresa con successo dall’Opéra nel 98, è una minuziosa composizione geometrica che imprigiona gruppi di vergini terrorizzate, impegnate, fuggendo da ogni parte, nel tentativo di evitare il rito immutabile dell’accoppiamento consumato per marcare il ritorno della primavera. La coreografia è fortemente allusiva alla condizione di vittima in cui è relegata la donna nella società.
In lunghe camicie chiare le fanciulle si lanciano l’un l’altra con orrore l’abito rosso che designerà l’Eletta, di fronte ai maschi a torace nudo, in pantaloni neri, impassibili nell’attesa che l’ineluttabile si compia. Si raggruppano per darsi conforto, si separano lanciandosi in scorribande piene di terrore, finché l’implacabile sciamano non imporrà l’abito rosso a una di esse, che, sull’accordo finale, cade inebetita rigidamente sul terreno come un albero abbattuto.
Nel creare un clima sconvolgente e selvaggio con immagini neo-espressioniste la versione della Bausch presenta forti tangenze a quella di poco antecedente (1972) di Neumeier. Il lavoro è un’analisi della disintegrazione del mondo, della distruzione dell’umanità, del disorientamento dell’uomo di fronte ai rivolgimenti culturali e sociali provocati da un’azione rivolta contro la sacralità della vita, dalle violenze di un conflitto, agli accoppiamenti di massa. Il climax è raggiunto con due angoscianti assoli finali: uno maschile e il secondo per l’Eletta.
Il corpo nudo, scarno, stremato dalla danza, della sua Eletta pare l’incarnazione di una tela espressionista. Nulla di erotico, ci dirà lo stesso Neumeier, ma la traduzione visiva della vulnerabilità dell’uomo allorché è vittima della perdita dei valori umani.
I Sacre che fanno uso di un linguaggio espressionista non potevano che essere anticipati da quello proposto da Mary Wigman, e questo, secondo Fedele d’Amico, fu il solo veramente imponente apparso tra la ripresa di Massine e la creazione di Béjart.
Quando nel 1957 l’opera di Berlino le chiese la sua versione del Sacre, la Wigman, dopo un iniziale rifiuto, ne diede un’interpretazione anch’essa basata sulla comunicazione di elementi sacrali e sacrificali.
La vittima, ben lontana dal mostrarsi ribelle al destino, non è neppure vittima consenziente, ma poco più che un oggetto: figure maschili, che appaiono quasi sacerdoti preposti a un rituale, la circondano e se la lanciano l’un l’altro privandola così di ogni personalità umana.
L’azione si svolge su un piano inclinato che occupa l’intero palcoscenico, di emblematica forma circolare, un richiamo esplicito al simbolismo presente nelle versioni precedenti. L’inclinazione fornisce una sorta di gerarchia spaziale e consente una visione completa delle linee seguite dai ballerini nel danzare, favorendo l’impressione di una coreografia geometricamente molto pulita, essenziale, alle radici del mondo.
Originalissima è la visione di Paul Taylor che nel 1980 ambienta il suo Sacre nell’America del XX secolo, sottotitolandolo The Rehearsal. I 12 danzatori implicati si muovono lungo tre piani narrativi: il rituale quotidiano delle prove di una compagnia di balletto; la rievocazione del Sacre del 1913 con le stesse prove di danza che rimandano alle danze rituali di Nijinsky; un racconto poliziesco ambientato nella Chinatown degli anni 30 attorno al rapimento di un bimbo, la madre del quale corrisponde all’Eletta. Questa versione utilizza la partitura per due pianoforti della musica di Stravinsky, come faranno Uwe Scholz e Shen Wei nel 2003, preceduti nel 1981 da Richard Alston.
Spoerli indaga le analogie tra il mondo barbarico e la società contemporanea, imperniando la sua versione sul duplice significato dell’espressione cacciatori di teste: i popoli primitivi che per ragioni rituali conservano le teste dei nemici vinti e la spietata ricerca da parte delle aziende di manager che incrementino i ricavi. Creature semi-umane coperte di fango, emergono da una caverna, scivolano a terra, si contorcono, sono finalmente raggiunte dai loro maschi che si lanciano a terra con violenza. A uno a uno vanno, come per consumare un rito, verso un mucchio di polvere grigia alimentato da un’inarrestabile cascata di terriccio scuro, simbolo del lucro che muove la società industriale. Da questo cumulo traggono vigore e in esso si annienterà la vittima.
Prima di concludere è opportuno aggiungere un elenco o poco più per non dimenticare proposte di rilievo come quella pensata da Martha Graham. La madre della danza moderna era stata l’Eletta nella ripresa americana del 1930 della versione di Massine, uscendone con un’esperienza frustrante. Il coreografo, preferendole un’altra Eletta, durante le prove fece di tutto per dissuaderla dall'andare in scena. La Graham ebbe la meglio, ma ne ricavò ricordi così sgradevoli da rimandare l’impegno a creare un suo Sacre fino al 1984 all’età di 90 anni. La drammaturgia è sostanzialmente quella originale, il vecchio Saggio della versione del 13 è sostituito da uno sciamano che lega l’Eletta con una fune come rito preparatorio al suo sacrificio e questa ha carattere universale di vittima sacrificale.
Per Glen Tetley (1974) la vittima è un giovane Eletto, al quale sono dedicati due lunghi assoli, sofferente, coi connotati del Cristo, costantemente immolato per nascere nuovamente in primavera. Kudelka sceglie come vittima una donna incinta che, una volta che avrà dato la vita, potrà scomparire avendo esaurito la sua sola ragione d’essere. E’ sottolineato il desiderio inconscio, comune a monarchi e contadini, che il primo nato sia maschio.
Angelin Preljocaj nel 2001 mette in evidenza il fascino morboso che il terrore ancestrale porta con sé: la violenza del rito nel generare panico lascia aperta la sola scelta di partecipare al sacrificio.
Ricordato, infine, il mondo in bianco e nero di Saburo Teshigawara (1999), i contributi di MacMillan e di Renato Zanella, i diseredati di Vittorio Biagi e la salsa latino americana utilizzata recentissimamente da Emanuel Gat è necessario chiudere questa sintetica rassegna, che potrebbe annoverare ben oltre 100 autori, come prova una prima, rapida ricerca in internet; tuttavia ci piace non dimenticare l’omaggio fatto da Walt Disney alla musica di Stravinsky in Fantasia, scelta per accompagnare la creazione della terra, la nascita e l’estinzione dei dinosauri.
Spoerli indaga le analogie tra il mondo barbarico e la società contemporanea, imperniando la sua versione sul duplice significato dell’espressione cacciatori di teste: i popoli primitivi che per ragioni rituali conservano le teste dei nemici vinti e la spietata ricerca da parte delle aziende di manager che incrementino i ricavi. Creature semi-umane coperte di fango, emergono da una caverna, scivolano a terra, si contorcono, sono finalmente raggiunte dai loro maschi che si lanciano a terra con violenza. A uno a uno vanno, come per consumare un rito, verso un mucchio di polvere grigia alimentato da un’inarrestabile cascata di terriccio scuro, simbolo del lucro che muove la società industriale. Da questo cumulo traggono vigore e in esso si annienterà la vittima.
Prima di concludere è opportuno aggiungere un elenco o poco più per non dimenticare proposte di rilievo come quella pensata da Martha Graham. La madre della danza moderna era stata l’Eletta nella ripresa americana del 1930 della versione di Massine, uscendone con un’esperienza frustrante. Il coreografo, preferendole un’altra Eletta, durante le prove fece di tutto per dissuaderla dall'andare in scena. La Graham ebbe la meglio, ma ne ricavò ricordi così sgradevoli da rimandare l’impegno a creare un suo Sacre fino al 1984 all’età di 90 anni. La drammaturgia è sostanzialmente quella originale, il vecchio Saggio della versione del 13 è sostituito da uno sciamano che lega l’Eletta con una fune come rito preparatorio al suo sacrificio e questa ha carattere universale di vittima sacrificale.
Per Glen Tetley (1974) la vittima è un giovane Eletto, al quale sono dedicati due lunghi assoli, sofferente, coi connotati del Cristo, costantemente immolato per nascere nuovamente in primavera. Kudelka sceglie come vittima una donna incinta che, una volta che avrà dato la vita, potrà scomparire avendo esaurito la sua sola ragione d’essere. E’ sottolineato il desiderio inconscio, comune a monarchi e contadini, che il primo nato sia maschio.
Angelin Preljocaj nel 2001 mette in evidenza il fascino morboso che il terrore ancestrale porta con sé: la violenza del rito nel generare panico lascia aperta la sola scelta di partecipare al sacrificio.
Ricordato, infine, il mondo in bianco e nero di Saburo Teshigawara (1999), i contributi di MacMillan e di Renato Zanella, i diseredati di Vittorio Biagi e la salsa latino americana utilizzata recentissimamente da Emanuel Gat è necessario chiudere questa sintetica rassegna, che potrebbe annoverare ben oltre 100 autori, come prova una prima, rapida ricerca in internet; tuttavia ci piace non dimenticare l’omaggio fatto da Walt Disney alla musica di Stravinsky in Fantasia, scelta per accompagnare la creazione della terra, la nascita e l’estinzione dei dinosauri.