Jean Börlin
La Jarre
19-11-1924 - Parigi, Théâtre des Champs-Elysées
Balletto in un atto
Coreografia: Jean Börlin
Musica: Alfredo Casella e danze e canzoni popolari siciliane.
Direttore d'orchestra: Alfredo Casella
Libretto: Jean Börlin dal racconto "La Giara" di Luigi Pirandello
Scene Giorgio de Chirico realizzate da Numa e Chazot
Costumi: Giorgio de Chirico realizzati da Marie Vasiliev
Cantante: Max Moutia
CAST
Un giovanotto: Jean Börlin
La figlia del padrone, Nela: Inger Friis
Il padrone, Don Lollò: Axel Witzansky
Il Gobbo, lo Zi’ Dima Licasi: Eric Viber
La ragazza della danza "lu chiovu": Signe Selid
Ballets Suédois
Coreografia: Jean Börlin
Musica: Alfredo Casella e danze e canzoni popolari siciliane.
Direttore d'orchestra: Alfredo Casella
Libretto: Jean Börlin dal racconto "La Giara" di Luigi Pirandello
Scene Giorgio de Chirico realizzate da Numa e Chazot
Costumi: Giorgio de Chirico realizzati da Marie Vasiliev
Cantante: Max Moutia
CAST
Un giovanotto: Jean Börlin
La figlia del padrone, Nela: Inger Friis
Il padrone, Don Lollò: Axel Witzansky
Il Gobbo, lo Zi’ Dima Licasi: Eric Viber
La ragazza della danza "lu chiovu": Signe Selid
Ballets Suédois
TRAMA
Il balletto, ambientato nella campagna siciliana, si apre al termine di una giornata di lavoro negli oliveti. I contadini si avviano stanchi verso le loro case, ma un Giovanotto li trattiene proprio davanti alla villa rustica del Padrone degli oliveti, il ricco possidente don Lollò, e li invita a danzare per rianimarsi e chiudere la giornata allegramente. Una Ragazza li guida in una danza folkloristica, lu chiovu, mentre la musica vivace attira Nela, la Figlia del Padrone, che, uscita dalla villa, si unisce agli amici. Durante le danze entrambe le ragazze manifestano interesse per il Giovane. Quando i ragazzi si accasciano a terra esausti dal gran ballare, tre Ragazze, come fossero tre muse tragiche, con lo sguardo attonito sottolineano l'evento infausto al quale hanno appena assistito: in una festosa colluttazione tra contadini, i giovani hanno urtato involontariamente un'enorme giara e un grosso frammento della parete del recipiente si è staccato. Mestamente, il gruppo di uomini porta sull'aia la giara rotta e il grosso frammento. Il recipiente, usato per conservare tutto l’olio prodotto, la ricchezza dell’intera comunità, è l'orgoglio di don Lollò e ciò aumenta nei contadini la paura per la reazione del Padrone.
Fatta prudentemente rientrare in villa la Figlia del Padrone, il Giovane si fa coraggio e lo chiama per comunicargli la brutta notizia. Il Padrone si infuria e si scaglia sui contadini col suo bastone, questi reagiscono, ne nasce un parapiglia. Nela, nuovamente uscita di casa, cerca di calmare il padre ed allontana il giovane spasimante. Viene fatto venire Zi' Dima, il Gobbo, che di mestiere ha sempre fatto il conciabrocche e il riparatore; costui studiata a fondo la rottura della giara, accetta di ripararla. Entra nel recipiente passando dal grosso buco provocato dalla rottura e si accinge a chiuderlo dall’interno saldandogli il frammento che si è staccato. Con l’aiuto delle tre Ragazze, le muse tragiche, riesce felicemente nell’impresa, ma, chiusa quell’apertura, gli resta solo il collo della giara per uscire. L'uomo è gobbo e il collo del vaso è troppo stretto perché Zì Dima riesca a passarvi con tutta la sua gobba. Frantumare di nuovo il recipiente sembra essere l’unica soluzione, come a dimostrazione del fatto che è vano tentare di modificare il disegno del destino. Ma il Padrone rifiuta di lasciar distruggere la giara se non riceverà un compenso per il recipiente inutilizzabile. I contadini protestano, il Padrone si adira, li caccia col bastone verso le loro case mentre la Figlia lo trascina nuovamente in villa.
L’area antistante la villa è ora deserta: vi campeggia la giara, dal cui collo esce la testa del Gobbo, rassegnato alla prigionia. Con grande calma e rassegnazione l’uomo si mette a fumare la pipa e si accinge a passare la notte, che comincia a scendere. Nell'aria risuonano le note di una canzone popolare, forse la serenata fatta a Nela dal Giovanotto innamorato: narra di un affascinante pirata che rapisce la giovane amata. Attratta dal canto, la Figlia del Padrone esce dalla villa proprio mentre sopraggiunge il Giovanotto; i due si uniscono in un dolcissimo passo a due, sognando di essere i due personaggi della canzone. Ritornano anche gli altri contadini per vedere come se la sta cavando il Gobbo nella sua prigionia e, tutti assieme, organizzano un brindisi alla sua salute e una piccola festa per alleggerirgli la prigionia.
La danza si fa chiassosa e il frastuono sveglia il Padrone, che, nuovamente irato, si scaglia sulla giara e la allontana facendola rotolare a calci con tutto il “contenuto umano”, che, attirando gli amici contadini, era stato causa della festa assordante. Ma, il recipiente, preso malamente a calci, torna a rompersi. Il Gobbo, finalmente libero, è portato in trionfo dai contadini tra la gioia generale. Il destino ha vinto ancora e proprio per mano del Padrone, che voleva opporglisi.
Fatta prudentemente rientrare in villa la Figlia del Padrone, il Giovane si fa coraggio e lo chiama per comunicargli la brutta notizia. Il Padrone si infuria e si scaglia sui contadini col suo bastone, questi reagiscono, ne nasce un parapiglia. Nela, nuovamente uscita di casa, cerca di calmare il padre ed allontana il giovane spasimante. Viene fatto venire Zi' Dima, il Gobbo, che di mestiere ha sempre fatto il conciabrocche e il riparatore; costui studiata a fondo la rottura della giara, accetta di ripararla. Entra nel recipiente passando dal grosso buco provocato dalla rottura e si accinge a chiuderlo dall’interno saldandogli il frammento che si è staccato. Con l’aiuto delle tre Ragazze, le muse tragiche, riesce felicemente nell’impresa, ma, chiusa quell’apertura, gli resta solo il collo della giara per uscire. L'uomo è gobbo e il collo del vaso è troppo stretto perché Zì Dima riesca a passarvi con tutta la sua gobba. Frantumare di nuovo il recipiente sembra essere l’unica soluzione, come a dimostrazione del fatto che è vano tentare di modificare il disegno del destino. Ma il Padrone rifiuta di lasciar distruggere la giara se non riceverà un compenso per il recipiente inutilizzabile. I contadini protestano, il Padrone si adira, li caccia col bastone verso le loro case mentre la Figlia lo trascina nuovamente in villa.
L’area antistante la villa è ora deserta: vi campeggia la giara, dal cui collo esce la testa del Gobbo, rassegnato alla prigionia. Con grande calma e rassegnazione l’uomo si mette a fumare la pipa e si accinge a passare la notte, che comincia a scendere. Nell'aria risuonano le note di una canzone popolare, forse la serenata fatta a Nela dal Giovanotto innamorato: narra di un affascinante pirata che rapisce la giovane amata. Attratta dal canto, la Figlia del Padrone esce dalla villa proprio mentre sopraggiunge il Giovanotto; i due si uniscono in un dolcissimo passo a due, sognando di essere i due personaggi della canzone. Ritornano anche gli altri contadini per vedere come se la sta cavando il Gobbo nella sua prigionia e, tutti assieme, organizzano un brindisi alla sua salute e una piccola festa per alleggerirgli la prigionia.
La danza si fa chiassosa e il frastuono sveglia il Padrone, che, nuovamente irato, si scaglia sulla giara e la allontana facendola rotolare a calci con tutto il “contenuto umano”, che, attirando gli amici contadini, era stato causa della festa assordante. Ma, il recipiente, preso malamente a calci, torna a rompersi. Il Gobbo, finalmente libero, è portato in trionfo dai contadini tra la gioia generale. Il destino ha vinto ancora e proprio per mano del Padrone, che voleva opporglisi.
GALLERY
APPROFONDIMENTO
LA VERSIONE DEI BALLETS SUEDOIS.
Nel 1920 il mecenate Rolf de Maré fondò i Ballets Suédois col preciso scopo di costituire un repertorio di balletti attento alle avanguardie sia musicali che pittoriche e, dunque, di proporsi come alternativa ai contemporanei Ballets Russes di Diaghilev. Per qualche anno la compagnia presentò al teatro degli Champs-Elysées a Parigi coreografie di Jean Börlin, che dei Ballets Suédois fu anche primo ballerino e codirettore assieme a de Maré. Tuttavia, la compagnia si sciolse nel 1925 dopo qualche ulteriore tournée, avendo avuto vita assai più breve dei Ballets Russes. (...) E' Fedele d'Amico, in una recensione sulla rivista "Sicilia", a raccontarci come nacque il balletto La Jarre per la compagnia di de Maré. Sul finire del 1923 i Ballets Suédois cercavano un nuovo balletto folklorico che potesse competere in successo con El Sombrero de Tres Picos di de Falla-Massine-Picasso dei Ballets Russes. Al balletto d’ambientazione spagnola dell’impresario russo, de Maré pensò di contrapporre una creazione folklorica e pensò a un balletto tutto italiano. Il primo italiano scelto per l’impresa fu Alfredo Casella, musicista torinese, che al momento abitava a Parigi. Fu Satie, in accordo con de Maré, a scrivergli per commissionargli la partitura per un balletto, proposta subito accettata con entusiasmo. Quanto al soggetto, il compositore italiano Mario Labroca, che da tempo intendeva creare un balletto sulla novella del 1917 La Giara di Pirandello, cedette l’idea a Casella e, così, fu deciso per un opera comico-satirica. De Maré, uomo di grande cultura, apprezzava gli scritti di Luigi Pirandello e fu dunque deciso di rivolgersi direttamente al drammaturgo perché scrivesse il libretto per la nuova creazione. Nella novella Pirandello aveva sviluppato l’aspetto legale, contemplando un processo per la rottura della giara e facendo del racconto una sorta di allegoria della proprietà e del possesso; per il balletto si orientò verso un aspetto satirico, pensando a una beffa paesana, ma contemplando anche l’amore di due giovani e punteggiando la storia di temi dal folklore siciliano. Nel frattempo Casella fu fortemente spinto dallo stesso de Maré ad utilizzare musica popolare e folkloristica della Sicilia. Il compositore raccolse l’invito inserendo nella partitura una canzone folkloristica originale, affidata a un tenore che doveva eseguirla nel golfo mistico, e utilizzando un gran numero di tarantelle tra le quali spuntavano citazioni da Stravinsky e Prokofiev. Ma il fatto fondamentale fu l’uso di motivi folkloristici siciliani non tanto per introdurre intermezzi vivaci, ma come elementi strutturali dell’intera composizione, che, in tal modo, assunse un aspetto unitario. Scena e costumi furono affidati a Giorgio de Chirico, che, all’epoca, aveva frequenti contatti con le avanguardie della capitale francese: al momento, non si erano ancora guastati i buoni rapporti con l’ambiente surrealista parigino, che apprezzava la pittura del suo primo periodo metafisico. Scrivono Millicent Hodson e Kenneth Archer che “ne La Jarre de Chirico abbandonò le sue tendenze metafisiche e celebrò semplicemente la Sicilia. …. La scena era di attrazione immediata, con la villa del Signore a colonnato ed archi, un paesaggio marino oltre un muretto curvo”. Nella sola scena de Chirico usa colori fortemente a contrasto: il rosso della villa, il bianco del muretto e del corpo laterale della villa, con arcata e balconata coperta, si stagliano sull’azzurro-blu che, dal cielo e dal mare, tinge le collinette. Ma se è vero che l’immagine creata con colori mediterranei celebra la luce e la solarità dell’isola, non ci sembra che, per far ciò, il maestro si sia allontanato dalla sua visione metafisica, come affermano Hodson e Archer. Anzi, a palcoscenico vuoto, nella scena ci sembra di vedere una forte assonanza con la serie delle Ville romane, un nuovo tema aggiunto dall’artista alla sua metafisica proprio attorno al 1923, dove indaga gli aspetti enigmatici delle architetture e dei paesaggi reali o immaginari, cogliendo la presenza di un quid di divino nella natura e nelle costruzioni dell’uomo, ossia nella storia anche popolare. E' la sola presenza nel suo luogo naturale di un edificio imponente e carico delle storie di chi lo ha abitato ad evocare in certi momenti atmosfere dominate dal silenzio e dall'immobilità, cioè una realtà della villa "altra" da quella che appare comunemente. E questo intravediamo nella scena, prima che si animi con l'arrivo dei contadini, quando vi vaga solitario il Gobbo, quando cala la notte e il conciabrocche è solo, prigioniero nella giara, quando si levano, magiche, le note della canzone popolare e anche quando i due innamorati danzano il loro duetto amoroso. Per quanto attiene ai costumi, Hodson e Archer osservano che ciascuno ha solo quattro campi di colore, divisi tra gonne o pantaloni, camicie, fasce, bandane. Tuttavia, se il singolo costume si basava su una tavolozza limitata di tessuti in tinta unita, l’effetto generale appariva estremamente variato. Continuano i due coniugi osservando che la coreografia, secondo i resoconti reperiti, seguiva i principi sviluppati da Börlin per Skating Rink, come ad esempio, l’utilizzo di piccoli gruppi come mattoni costitutivi per una coreografia d’assieme, la centralità della massa in cui ogni tanto si individuano i solisti o personaggi specifici ed altri principi già introdotti dal Nijinsky coreografo. Ma va anche sottolineato che Börlin aveva assorbito l’atmosfera italiana in una vacanza nella penisola l’anno precedente e che, nell’occasione, aveva studiato le danze folkloristiche siciliane presso la compagnia teatrale dello stesso Pirandello. Da queste il coreografo mutua la gestualità caratteristica della danza d'assieme: un movimento a mulinello delle braccia piegate davanti al petto, assecondato dalle spalle. Scriverà Massimo Mila: "La bellezza ed il successo di questo balletto stanno nell'espressione travolgente di ebbrezza dionisiaca, di pantagruelico buon umore, di incontenibile ed esuberante salute fisica". Il balletto fu il più applaudito tra le novità dei Ballets Suédois. Dopo il debutto parigino del lavoro, la compagnia intraprese una tournée negli Stati Uniti, poi tornò in Francia nel 1925 e si sciolse nello stesso anno. Da quel momento il balletto non fu più rappresentato nella sua forma originale. Nel 2008 Millicent Hodson e Kenneth Archer ne hanno proposto una rievocazione per il Teatro dell’Opera di Roma, con scene e costumi ricreati sui bozzetti originali. ALTRE VERSIONI. Del balletto vennero proposte versioni: da Rosina Galli nel 1927 al Metropolitan Opera House di New York; da Bronislava Nijinska nel 1927 al Colon di Buenos Aires; in occasione del debutto del Balletto dell'Opera di Roma, nel 1928 al Teatro dell’Opera di Roma da Ileana Leonidoff, che ne fu interprete assieme a Dimitri Rostoff e a Aleksandr Markov. Il balletto fu ancora ripreso con coreografie diverse: da Ninette de Valois nel 1934 col Sadler’s Wells Ballet al Sadler’s Wells Theatre di Londra, con scene e costumi di William Chappel, interpretato da Beatrice Appleyard, Robert Helpmann, Walter Gore (il Gobbo): la versione contiene due assoli, uno per Nela, giocato su caratteristici movimenti delle braccia, e uno, posto a preludio del balletto, per il Gobbo; da Aurel Millos per il Balletto dell'Opera a Roma nel 1939, a Firenze nel 1957 con scene e costumi di Renato Guttuso e ballato da Angelo Pietri (il Gobbo), Ludwig Durst (il Padrone), Olga Amati (la Figlia del Padrone), René Bon (il Giovane), a Palermo al Teatro Massimo nel 1958 con il medesimo allestimento e ballato da Alberto Testa (il Gobbo), Ludwig Durst (il Padrone), Olga Amati (la Figlia del Padrone), Walter Zappolini (il Giovane), al Teatro Comunale di Bologna nel 1977; da Bianca Gallizia al Teatro Sociale di Como (per la Scala di Milano) nel 1943, con scene e costumi di Veniero Colasanti, interpretato da Edda Martignoni, Ermanno Savaré, Dino Cavallo, Tony Corcione; da Margherita Wallmann per la Scala di Milano nel 1949 con scene e costumi di Mario Vellani Marchi con Luciana Novaro, Ugo dell’Ara, Gino Pessina, Giovanni Brinati nel 1953, nel 1959; da Luciana Novaro per la Scala di Milano nel 1962 con scene e costumi di Aligi Sassu, interpretato da Dario Brigo, Roberto Fascilla, Elettra Morini, Mario Pistoni; da Ugo dell’Ara per il Politeama Garibaldi di Palermo nel 1976 con scene e costumi di Salvatore Russo; da Giuseppe Carbone al Teatro Regio di Torino nel 1977; da Gianfranco Paoluzzi nel 1990 Palatenda di Torino e nel 1991 al Teatro Regio di Torino; da Enzo Cosimi nel 1991 al Teatro Verdi di Firenze per MaggioDanza. Come detto nel 2008 viene riproposta al Teatro dell'Opera di Roma la versione di Börlin nell'allestimento di de Chirico e per la ricreazione di Millicent Hodson. Marino Palleschi Balletto.net Danze fuori dal buco.
Sulla fortuna coreografica de La giara di Pirandello (...) Il balletto La Jarre, il cui libretto è tratto dalla novella pirandelliana, debuttò al Théâtre des Champs-Elysées di Parigi il 19 novembre del 1924, grazie a Les Ballets Suédois, compagnia creata e diretta dal mecenate svedese Rolf de Maré non senza l’apporto più in ombra del segretario generale e direttore del teatro, Jacques Hébertot (Auclair 2014, 11-20). La coreografia come di consueto fu affidata a Jean Börlin, danzatore principal della compagnia. La partitura musicale originale fu composta da Alfredo Casella, mentre le scene e i costumi furono affidate a Giorgio de Chirico. La “commedia coreografica in un atto”, così come fu chiamata a partire dal 1928, fu presentata all’interno di un programma di danza abbastanza composito: cinque titoli di cui quattro inediti. La Jarre fu quello che riscosse più unanimi consensi. Sono questi gli anni dell’affermazione per il balletto di una autonomia estetica e di una forte legittimità artistica nei confronti soprattutto del teatro musicale. A Parigi, Les Ballets Suédois agivano in speculare (e salutare) concorrenza con l’attività e il credo modernista dei Ballets Russes diretti da Serge de Djaghilev (Garafola 1995), all’insegna della coesistenza di stili coreografici diversi ma sempre secondo l’idea di una sinergia di tutte le arti contemporanee (Suquet 2012, 112). L’agenda di entrambe le compagnie comprendeva un radicale rinnovamento dello spettacolo danzato e del vocabolario accademico attraverso cui si consegnava alla modernità la tradizione del balletto ottocentesco. Ma anche delle sue gerarchie interpretative, radicate nella centralità della figura erotizzata del corpo della ballerina. Gerarchie ora riconsiderate attraverso una strategica sovversione delle dominanti rappresentazioni della mascolinità e del corpo maschile (Burt 1995). La recente rivalutazione di Jean Börlin, sia come interprete che come coreografo nelle vicende della danza del primo modernismo, parte proprio dai suoi sforzi di creare un intero mondo di movimento differente per ogni suo nuovo lavoro coreografico. Fu infatti questa sua ampia ricerca compositiva che qualificò sempre le sue creazioni, a prescindere dal metro con cui noi oggi possiamo guardarne i risultati (Dorris 1999, 170). I prodotti di un tale impegno comprendevano spesso la trasformazione della negatività dei discorsi normativi sull’omosessualità nella positiva affermazione di una soggettività alternativa a quella eteronormata (Burt 1999, 233). Nonostante il successo che La Jarre riscosse al suo debutto parigino, già da prima qualche problema incominciò a danzare ‘fuori dal buco’. In una lettera, non datata ma precedente il debutto, scritta da Casella a Börlin, il compositore chiede esplicitamente al coreografo di forzare l’aspetto ‘selvaggio’ della sua interpretazione, in conformità con la proverbiale atmosfera superstiziosa e tragica anche nelle manifestazioni di gioia nella Sicilia arcaica della novella: N’oublie pas que la Sicilie est un pays sombre de mœurs, superstitieux, tragique jusque dans les manifestations de joie: sur toute la vie du pays pèse toujours une atmosphère de fatalité et d’angoisse. Il y aura avantage à forcer le caractère cruel et farouche plutôt que de tendre vers quelque chose d’efféminé et de mièvre (cit. in Näslund 2008, 353). Ed è lecito chiedersi se quest’ultima sia una sincera preoccupazione per una più mimetica interpretazione degli austeri personaggi pirandelliani, oppure se investe direttamente il pregiudizio corrente sull’effeminatezza del danzatore maschio. La comprensione musicale della Giara pirandelliana, prima ancora del suo debutto coreografico, è già in potenza la tomba di una certa forma di soggettività. Quella pronta a rivendicare le sue radici perché assimilate a qualcosa di fatale, sul terreno prezioso di ogni discorso nazionalista. Una soggettività maschilista e, in fondo, omofoba. In merito al suo inedito coinvolgimento per il décor e i costumi, Giorgio de Chirico affermò sùbito, su La Danse di dicembre del 1924, che solo quando si saranno “délivrés complètement d’un certain esthétisme qui les corrompt encore”, i balletti insieme al cinema potranno “remplacer le théâtre de prose et d’opéra qui disparaît lentement” (cit. in Häger 1990, 244). Il primitivismo danzato nella Giara corre qui in parallelo, per de Chirico, con l’influenza del cinema (McCarren 2003, 112). Apertamente polemico e in qualche modo profetico, il programma ‘visivo’ di de Chirico si accorda meglio con quanto da lui realizzato per La Jarre se letto in prospettiva con le parole di Rolf de Maré, nella stessa pubblicazione, quando afferma che solo Pirandello avrebbe potuto dipingere “l’atmosphère pittoresque de cette Sicilie plein de Soleil dont les danses paysannes m’avaient toujours séduit” (cit. in Häger 1990, 245). Ecco allora che i nuovi elementi capaci di liberare il vecchio estetismo del balletto si trovano nel seduttivo pittoresco di questa Sicilia arcaica, di questa vita e di queste danze di paese contrapposte a quelle della grande città moderna e caotica, a cui idealmente vi si sostituiscono come lo spettacolo di una più autentica alterità. E infatti in un perfetto, quanto per lui insolito, stile rustico de Chirico “réalisa néanmoins un décor très représentatif de sa manière avec son ciel bleu, sa terre jaune et ses murs écarlates” (Näslund 2008, 353). Il programma di ogni avanguardia si completa spesso nella seduzione regressiva di un passato utopico e solare che ritorna a schiarire la notte in cui si crede essere avvolto il presente. Pirandello danza A posteriori, l’idea iniziale del balletto è rivendicata, ma in modo non pacifico, da Alfredo Casella, nel suo libro autobiografico intitolato I segreti della giara. Qui, la giara del titolo è, per Casella, il contenitore materiale di una intera vita spirituale, e non meno significativamente dedica il suo libro: All’Eccellenza Giuseppe Bottai | All’uomo di Stato, | All’amico carissimo che “volle” questo libro, | per devota ammirazione | e per grata amicizia, | A. C. | Roma, gennaio 1939-XVII (Casella 1941, 5). Casella rivela che de Maré desiderava un balletto tipicamente italiano, da contrapporre a Le Tricorne di de Falla. E voleva anche uno scenografo italiano, poiché Diaghilev non aveva mai fatto niente di simile. Casella ebbe l’idea di cercare un argomento nella vasta produzione novellistica di Luigi Pirandello, nonché di proporre il nome di Giorgio de Chirico per la scena e i costumi. Ma per Casella fu il compositore Mario Labroca a suggerirgli di trarre l’argomento dalla novella La giara, alla quale lui stesso aveva pensato e ora vi rinunciava a suo favore. Così poi, “in poche ore di comune lavoro con Pirandello, il libretto fu pronto e mi posi all’opera con vivissimo entusiasmo” (Casella 1941, 225-227). In tempi di compiuta smaterializzazione delle ragioni del corpo nella gabbia simbolica della propaganda fascista (Falasca Zamponi 2003, 183-192), l’impressione qui è che la posteriore rivendicazione sul più pieno controllo dell’autenticità della gènesi dell’opera consenta a Casella di stabilire e mantenere fermi i confini entro cui si disegna la genuinità, in termini nazionali e identitari, della sua trasmissione. Casella diresse personalmente l’orchestra al debutto parigino, e già nel 1931 aveva suggerito che forse in futuro un coreografo italiano avrebbe meglio catturato “le côte trépidant, en quelque sorte ‘électrique’ de la musique”, a contraggenio invece della “lourdeur relative de la danse inventée par Jean Borlin” (Casella 1931, 177). Eppure la scelta di de Maré e di Börlin per l’opera di Pirandello non può essere considerata come una risposta al successo del balletto Le Tricorne di Leonid Massine su musiche di Manuel de Falla per i Ballets Russes di Diaghilev, poiché già lo fu Iberia, con musiche di Isaac Albéniz, balletto realizzato da Börlin nove mesi dopo il debutto del balletto di Mjasin all’Opéra. Rolf de Maré era testimone della recente notorietà di Pirandello per il debutto pargino dei Six Personnages en quête d’auteur nel 1923 al Théatre des Champs-Elysées che egli dirigeva: “De Maré battait donc le fer tant qu’il ètait chaud…” (Näslund 2008, 352). Inoltre, Les Ballets Suédois furono in tournée in Italia dall’8 febbraio al 29 aprile del 1923, e i loro programmi riscossero “un successo quasi unanime”, perché ben concertati dall’impresario che considerava l’Italia come “la gelosa custode delle grandi tradizioni artistiche”, secondo la definizione che ne diede egli stesso “nella presentazione dei suoi spettacoli” (Cafiero 1998, 87). Vero è che la prima parte del processo creativo di Börlin nasce da uno stretto confronto con Pirandello. Del resto, anche l’introduzione nel libretto dell’episodio d’amore tra la figlia di Don Lollò e un paesano (danzato da Börlin) assente nell’intreccio della novella e nelle sue due riduzioni teatrali, sembra giustificarsi proprio nelle ragioni della distribuzione dei ruoli nello spettacolo di balletto (Santi 2007, 192). Börlin e Pirandello si incontrarono due volte, tra luglio e agosto del 1924. Dapprima a Monteluco (Spoleto), presso l’abitazione di Pirandello, insieme a Casella. Poi a Palermo, con de Maré, per visitare il Museo etnografico e raccogliere materiale folclorico. Pirandello raggiunse Börlin per aiutarlo a riunire la documentazione e per affinare il progetto. Börlin racconterà più tardi che guardarono assieme alcune danze folcloriche, ma che Pirandello le giudicò prive di valore: Voici comme on dansait quand j’ètais enfant! dit le grave dramaturge, qui, joignant le geste à la parole, se mit à exécuter de vieilles danses siciliennes à un rythme endiablé!. Quel spectacle inoubliable! (intervista con Jean Börlin, in “L’Intransigeant”, October 20, 1924, cit. in Näslund 2008, 353). Il “baccano d’inferno” della festa primitiva e notturna che chiude La giara è gia tutta qui nel ritmo indiavolato di gesto e parola del corpo danzante di Pirandello. La visita al museo fu dovuta alla ricerca soprattutto di immagini da far rivivere sulla scena, più che di gesti o di posture, e non in termini di mere riproduzioni ma come “new thoughts, new ideas, and new forms”, secondo proprio l’inesausta, per quanto a volte conforme, prassi compositiva di Börlin (Dorris 1999, 177). La ricerca sul campo, invece, si è imbattuta direttamente nell’oggetto del suo studio, e ha così trasformato l’osservazione partecipante in una risposta vivente. Danzare Pirandello Della coreografia di Börlin, della sua gènesi nella gestualità e nel corpo di Pirandello, i recensori al suo debutto niente capirono. Non certo per il consueto, stanco luogo comune dell’intraducibilità della parola, della problematica, della dialettica, della “dialogica realistica”, nelle intensità del gesto danzato (Santi 2007, 189-191). Ma perché prevalsero soprattutto ragioni ideologiche, e così nuovi problemi affiorarono dai bordi della giara. Il pianista e critico Auguste Mangeot riconobbe l’italianità musicale della partitura di Casella, inscritta nella corrente neoclassica che ha segnato la musica fra le due guerre (Kelkel 1992, 210). Pienamente sordo ai nuovi princìpi del movimento, Mangeot riconobbe solo ciò che già conosceva, ironizzando sommariamente sul proclamato programma antiaccademico della compagnia svedese, di contro invece alle, a suo dire impeccabili, attitudes accademiche di Börlin (Mangeot 1924, 373-374). Ma la nuova danza agli occhi di chi sa purtroppo soltanto ascoltare non sembra più che una ripetizione dell’identico senza alcun incanto. Il compositore, direttore d’orchestra e critico musicale André Messager, su “Le Figaro” non trovò niente di nuovo nel libretto di Pirandello, tantomeno nella coreografia, giudicata ripetitiva nella presenza di Börlin come interprete in tutti i cinque balletti della serata: “C’est dire que nous revoyons pendant toute la soirée les mêmes gestes, le mêmes pas, les mêmes attitudes. Il paraîtrait que cela enchante quelques spectateurs!” (Messager 1924). Georges Ploch deplorò addirittura l’aleatorietà dei significati negli spettacoli di danza, ma non la sua personale incomprensione delle nuove gerarchie nelle arti moderniste: “Ce qui ne vaut pas d’être dit, on ne le chante même plus au-jourd’hui: on le danse...”; per aggiungere, laconico: “Quant à la chorégraphie, elle se montre sans fantasie, sans verve, sans réelle invention” (Ploch 1924). L’ideologia nazionalista al fondo della partitura di Casella, a un passo da quello che diverrà poi “il suo ideale stile littorio” (Santi 2007, 188), fu invece ben riconosciuta e accolta dai recensori italiani. Renzo Bossi, docente di Composizione al Conservatorio di Milano e direttore d’orchestra, riporta le recensioni parigine all’attualità italiana, affinché il “Casella reazionario”, “rientrato a Roma” come “un figliol prodigo”, potesse essere un “salutare monito di certi incomposti fanatismi avveniristi tuttora imperanti nel nostro Bel Paese” (Bossi 1924). Mentre Sarti, su “La Tribuna”, ignorando totalmente l’idea della coreografia come arte autonoma, ritrova Casella “fedele alle tradizioni italiche. Il suo balletto conserva il ritmo della nostra musica moderna ed ha un carattere nettamente rusticano. Anche i costumi di De Chirico hanno caratteri che con le scene da lui ideate contribuiscono molto a creare una atmosfera squisitamente italiana” (Sarti 1924). È evidente che i corpi che hanno dato vita a questi ritmi restano al momento del tutto invisibili e alieni al mercato dei discorsi di rivendicazione delle identità. Perché la giara come totem di una società che reinstaura i valori della tradizione contro lo sperimentalismo modernista, per la critica musicale non va mai in frantumi. Non vi è nessun rivelatore “baccano infernale” attorno a questo totem. Per il compositore e musicologo francese Roland Alexis Manuel Levy, “Le ballet n’est qu’une suite de danses qui se nouent et se dénouent autour de la jarre”, mentre al contrario “Casella ne tourne point autour du pot”. È la condanna dell’artificio e dell’effetto, a favore di una “langue musicale comme émondée de toute locution qui ne soit pas purement italienne”. Quando le identità nazionali vengono riconosciute ben cementate fra i confini della loro storia allora si possono rivendicare illustri genealogie, e il clan è la parentela che tiene a bada ogni inquietudine: Domenico Scarlatti, Rossini et Verdi sont les parrains de son ouvrage; ils n’en sont pas les parents. [...] Dans la Jarre, une symphonie preste et robuste à la fois nous ravit sans inquiétude (Roland-Manuel 1924). Infine, in due consecutivi interventi, Émile-Jean-Joseph Vuillermoz, musicologo e critico, in un duro attacco alle ragioni innovative del teatro coreografico degli svedesi, “ces pseudo-révolutionnaires” in cui il desiderio di sorprendere non è pari alla loro incerta e balbuziente tecnica di movimento (Vuillermoz 1924a), arriva ad apostrofare il facoltoso de Maré come “bolcheviste par persuasion”. E farebbe anche soltanto sorridere, se proprio in conclusione non apparisse il più vero spettro della critica musicale: “les Ballets Suédois sont une compagnie où les danseurs s’effacent devant les musiciens, et où les musiciens cèdent la place aux danseurs” (Vuillermoz 1924b). La possibilità che la musica sia costretta a cedere il passo alla danza, e che insomma la danza possa finalmente fare a meno di sottomettersi alla musica (cfr. Tomassini 2013). BIBLIOGRAFIA Auclair 2014. M. Auclair, in Les Ballets Suédois (1920-1925), a c. di M. Auclair, F. Claustrat, I. Piovesan, Paris 2014, 11-20. Bossi 1924. R. Bossi, Da Alfredo Casella a Umberto Giordano - “La Giarra” e “Cena delle beffe”, in “La grande illustrazione d’Italia”, novembre 1924, 16. Burt 1995. R. Burt, The Male Dancer. Bodies, Spectacle, Sexualities, New York - London 1995. Burt 1999. R. Burt, Interpreting Jean Borlin’s Dervishes: Masculine Subjectivity and the Queer Male Dancing Body, in “Dance Chronicle”, 22 (2), 1999, 223-238. Cafiero 1998 C. Cafiero, I Balletti Svedesi in Italia, in “La danza italiana”, 1, 1998, 85-105. Casella 1931 A. Casella, Hommage a Jean Borlin, in Les Ballets Suédois dans l’art contemporain, Paris 1931, 177-178. Casella 1941. A. Casella, I segreti della giara, Firenze, 1941. Dorris 1999. G. Dorris, Jean Borlin as Dancer and Choreographer, in “Dance Chronicle”, 22 (2), 1999, 167-188. Falasca Zamponi [1997] 2003. S. Falasca Zamponi, Lo spettacolo del fascismo, a c. di S. De Franco, Soveria Mannelli [1997] 2003. Garafola 1995 L. Garafola, Rivals for the New: The Ballets Suédois and the Ballets Russes, in Paris Modern. The Swedish Ballet 1920-1925, a c. di N. Van Norman Baer, San Francisco 1995, 66-85. Häger 1990. B. Häger, Ballets Suédois (The Swedish Ballet), New York 1990. Kelkel 1992. M. 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(...) Si è già detto che La giara non è un balletto ma una commedia coreografica. Non è solo questione di nomi: ad episodi di danza vera e propria si alternano infatti la commedia mimica e la pantomima. Le danze non si succedono l'una all'altra, ma sorgono al momento voluto entro un tessuto di narrazione musicale, che non esclude neppure alcuni procedimenti di svolgimento tematico. Non solo: gli episodi di danza, scanditi da ritmi vivaci per lo più di tarantella, sono riservati a momenti dell'azione in cui la danza è già prevista nella novella come espressione collettiva di gioia, come movimento o come esplosione di energia vitale. In essi la musica interviene come un fatto naturalistico e realistico insieme. Per il resto, l'azione segue una precisa sceneggiatura, e questa si svolge nella forma di un recitativo pantomimico indicato in partitura fin nei minimi dettagli: per esempio i colpi assestati sulla giara per provarne la solidità dopo la riparazione, o il ruzzolare della giara giù per la china, sono resi dalla musica in forma descrittiva, quasi onomatopeica. E ciò si ripete ogni qualvolta la scena lo richieda o lo consenta, e sempre con la massima intenzione ed evidenza. Di questa azione che la musica descrive si ha un esempio fin dall'inizio, nel Preludio, che rappresenta una specie di prologo ovviamente inesistente nella novella: su un ritmo di siciliana che a sua volta subito immette nel clima musicale dell'opera appare davanti al velario chiuso Zi' Dima, il vecchio conciabrocche, come se stesse passando di lí per caso (e la musica subito ne definisce il carattere e la figura in un Allegro grottesco); accorgendosi a un tratto della presenza del pubblico, se ne stupisce e scompare celermente nel mezzo del velario. L'effetto teatrale - e di un teatro colto, moderno, novecentesco - è immediatamente efficace. Il ritorno del Tempo I chiude il Preludio in una simmetria pensata in termini sinfonici, se non puramente musicali. Quando la scena si apre, i contadini di ritorno dal lavoro danno vita a una prima danza, direttamente attinta dal patrimonio siciliano: il «Chiòvu» (in siciliano: chiodo), di chiaro sapore popolare, rusticano. Questa si trasforma poi in una danza generale, dove lo spunto popolare ampliandosi si trascende in una libera reinvenzione che segue sviluppi ben più che semplicemente folcloristici. Abbiamo qui un esempio caratteristico del passaggio da un tipo di musica popolare a una ricreazione che abbandona il terreno del folclore per addentrarsi incisivamente nei territori del rifacimento stilistico secondo i mezzi della musica d'arte più avanzata: nei ritmi, nei contrappunti e soprattutto nelle armonie, oscillanti modalmente e tonalmente. La spontaneità e la disinvoltura con cui ciò avviene è sicuramente frutto di un calcolo: ma Casella riesce a rendere impercettibili i punti di sutura e a far sembrare del tutto naturale la transizione. Si potrebbe dire che qui il carattere nazionale si manifesta come risultato di un processo di assimilazione linguistica e non come mero dato di partenza. Un vistoso gesto drammatico - l'irruzione di tre ragazze spaurite, che sembrano annunciare una grave disgrazia, accompagnate da un Grave, quasi funebre, che ne rispecchia la costernazione - introduce pateticamente, quasi si trattasse di un corpo agonizzante, la enorme giara spaccata; e si noterà appena come sulla 'formula del lamento', un topos della musica occidentale (ossia un semitono discendente), s'inserisca l'immagine musicale della giara spezzata, costituita da accordi cromatici che danno l'idea di una rottura, di una figura spezzata. Assai plastica è invece la presentazione della scena di furore di don Lollò, nella quale ancora una volta la musica coniuga una forte evidenza rappresentativa con una pregnanza linguistica che sembra trascendere la pura funzionalità drammatica. Con l'entrata di Nela, la figlia di don Lollò, anche la musica pare rischiararsi e ingentilirsi nella danza, fino a farsi distesa, carezzevole e suadente: melodia tipicamente italiana, certo, ma screziata di luci riflesse. Con quella di Zi' Dima, sul ritorno della figura tematica e ritmica del Preludio (convenientemente sbilenca gente come un manto di stelle, che si dissolve a poco a poco perdendosi nel silenzio della notte). Ciò che poi segue porta rapidamente a conclusione la commedia: dal Brindisi che accende gli spiriti nell'esaltazione dell'ebbrezza, al Finale orgiastico e barbarico, quasi brutale. E la danza, ora, può tornare a reclamare i suoi diritti; tutto e tutti accomunando in un tripudio generale che col rito popolare della festa può finalmente sfogare negli slanci della musica i suoi colori piú sgargianti, la sua tavolozza piú ricca e le sue luci piú abbaglianti. Folclore all'ennesima potenza; ma non solo folclore, nella giara abitata da Casella. Sergio Sablich Testo tratto dal programma di sala di Maggiodanza, Firenze, 21 marzo 1991 CURIOSITA'
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